Parlare di autorialità e di sguardi autoriali ha spesso portato a intravedere una soggettività ben definita dietro al più ampio e variegato spettro di lavori. I diversi ambiti disciplinari hanno tutti dovuto affrontare il “problema dell’autore”, ciascuno secondo i propri tempi e le proprie modalità, e questo perché ogni testo, visivo e non, è sempre il prodotto di qualcuno. È quindi dalla necessità di chiarire chi sia questo qualcuno che emerge la domanda sullo statuto dell’autore. Ma in fondo chi è l’autore, se non quel soggetto che intenzionalmente si fa carico dei processi di costruzione di un’opera? Quest’ultima diventa la concreta testimonianza delle scelte, della processualità e dello stile del suo ideatore. Non è raro poi che da questa intenzionalità processuale emergano elementi, tracce, frammenti direttamente legati al vissuto dell’autore. In quest’ottica, dunque, l’autorialità implica sempre forme autobiografiche e autoritrattistiche. Tra le diverse modalità con cui possibile raccontarsi, all'interno di questo lavoro si è scelto di dare spazio a quei racconti che utilizzano una modalità espressiva vicina alla pratica e all'estetica amatoriale. Per molti autori, l’utilizzo di questo tipo di estetica costituisce una vera e propria dichiarazione di intenti, un modo per affrancarsi dalla produzione cinematografica più canonica, più allineata alle richieste di mercato. Da questo punto di vista, risulta particolarmente interessante il lavoro di due autori ancora poco esplorati all'interno del panorama di studi italiano: Ross McElwee e David Perlov. Seppure in maniera differente, nelle loro opere l’approccio amatoriale al mezzo cinematografico costituisce la modalità espressiva attraverso cui viene veicolato il racconto intimo e personale. In tal modo, si passa da una dimensione essenzialmente privata, fatta di volti e presenze familiari, a una dimensione pubblica, collettiva, dove anche l’estraneo spettatore viene chiamato in causa. Il personale, dunque, è solo un punto di partenza, un pretesto per poter sollevare interrogativi universali. Ciò è vero per entrambi gli autori, ma nel caso di McElwee la questione emerge con particolare forza, poiché il regista americano ha fatto della propria esistenza il motivo trainante e imprescindibile di tutta la sua produzione, offrendo consapevolmente la propria vita allo spettatore. Nei film di McElwee il confine tra il privato e il pubblico, tra vita reale e rappresentazione artistica, si assottiglia a tal punto che è lo stesso autore ad ammettere di avere l’impressione di filmare la propria vita solo per avere una vita da filmare. L’opera di McElwee, quindi, ci interroga sull’effettiva possibilità del cinema di riprendere tutto. Anche nel lavoro di David Perlov, d’altro canto, l’universo privato dell’autore viene reso pubblico, ma con modalità differenti rispetto a quelle attuate da McElwee. Perlov, infatti, tra il 1973 e il 1983 realizza un monumentale diario filmato, in cui i piccoli gesti del quotidiano si intrecciano ai ben più grandi avvenimenti che investono il suo paese d’adozione, Israele. Il fulcro della sua ricerca è costituito proprio dall’esplorazione del quotidiano, che attraverso il diario acquisisce una nuova luce. Diary. 1973-1983 è, infatti, il racconto visivo della “trasfigurazione del banale”: un esempio di cinema volutamente attaccato all’ordinario e alla quotidianità, volutamente impoverito (nelle risorse, nei mezzi…) e lontano dalle logiche del mercato. È un cinema che ricerca la sua essenza più profonda e basilare tramite il coinvolgimento diretto della vita dell’autore.

Una dimensione privata: autobiografia e pratica amatoriale nel cinema di Ross McElwee e David Perlov

BORTOLAMI, MONICA
2021/2022

Abstract

Parlare di autorialità e di sguardi autoriali ha spesso portato a intravedere una soggettività ben definita dietro al più ampio e variegato spettro di lavori. I diversi ambiti disciplinari hanno tutti dovuto affrontare il “problema dell’autore”, ciascuno secondo i propri tempi e le proprie modalità, e questo perché ogni testo, visivo e non, è sempre il prodotto di qualcuno. È quindi dalla necessità di chiarire chi sia questo qualcuno che emerge la domanda sullo statuto dell’autore. Ma in fondo chi è l’autore, se non quel soggetto che intenzionalmente si fa carico dei processi di costruzione di un’opera? Quest’ultima diventa la concreta testimonianza delle scelte, della processualità e dello stile del suo ideatore. Non è raro poi che da questa intenzionalità processuale emergano elementi, tracce, frammenti direttamente legati al vissuto dell’autore. In quest’ottica, dunque, l’autorialità implica sempre forme autobiografiche e autoritrattistiche. Tra le diverse modalità con cui possibile raccontarsi, all'interno di questo lavoro si è scelto di dare spazio a quei racconti che utilizzano una modalità espressiva vicina alla pratica e all'estetica amatoriale. Per molti autori, l’utilizzo di questo tipo di estetica costituisce una vera e propria dichiarazione di intenti, un modo per affrancarsi dalla produzione cinematografica più canonica, più allineata alle richieste di mercato. Da questo punto di vista, risulta particolarmente interessante il lavoro di due autori ancora poco esplorati all'interno del panorama di studi italiano: Ross McElwee e David Perlov. Seppure in maniera differente, nelle loro opere l’approccio amatoriale al mezzo cinematografico costituisce la modalità espressiva attraverso cui viene veicolato il racconto intimo e personale. In tal modo, si passa da una dimensione essenzialmente privata, fatta di volti e presenze familiari, a una dimensione pubblica, collettiva, dove anche l’estraneo spettatore viene chiamato in causa. Il personale, dunque, è solo un punto di partenza, un pretesto per poter sollevare interrogativi universali. Ciò è vero per entrambi gli autori, ma nel caso di McElwee la questione emerge con particolare forza, poiché il regista americano ha fatto della propria esistenza il motivo trainante e imprescindibile di tutta la sua produzione, offrendo consapevolmente la propria vita allo spettatore. Nei film di McElwee il confine tra il privato e il pubblico, tra vita reale e rappresentazione artistica, si assottiglia a tal punto che è lo stesso autore ad ammettere di avere l’impressione di filmare la propria vita solo per avere una vita da filmare. L’opera di McElwee, quindi, ci interroga sull’effettiva possibilità del cinema di riprendere tutto. Anche nel lavoro di David Perlov, d’altro canto, l’universo privato dell’autore viene reso pubblico, ma con modalità differenti rispetto a quelle attuate da McElwee. Perlov, infatti, tra il 1973 e il 1983 realizza un monumentale diario filmato, in cui i piccoli gesti del quotidiano si intrecciano ai ben più grandi avvenimenti che investono il suo paese d’adozione, Israele. Il fulcro della sua ricerca è costituito proprio dall’esplorazione del quotidiano, che attraverso il diario acquisisce una nuova luce. Diary. 1973-1983 è, infatti, il racconto visivo della “trasfigurazione del banale”: un esempio di cinema volutamente attaccato all’ordinario e alla quotidianità, volutamente impoverito (nelle risorse, nei mezzi…) e lontano dalle logiche del mercato. È un cinema che ricerca la sua essenza più profonda e basilare tramite il coinvolgimento diretto della vita dell’autore.
2021
A private dimension: autobiography and amateur practice in the cinema of Ross McElwee e David Perlov
autobiografia
cinema amatoriale
Ross McElwee
David Perlov
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
Bortolami_Monica.pdf

accesso riservato

Dimensione 2.33 MB
Formato Adobe PDF
2.33 MB Adobe PDF

The text of this website © Università degli studi di Padova. Full Text are published under a non-exclusive license. Metadata are under a CC0 License

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12608/11533