Il pluralismo teorico, e di posizioni ontologiche sottese ai vari orientamenti teorici, in Psicologia clinica richiama l’urgenza e la portata della domanda morale e di verità: quale modo di intendere l’uomo, quale visione antropologica -sempre a fondamento di ogni prospettiva teorico-clinica in psicologia- è meglio scegliere? Con quali criterî? Nei casi in cui, a un’analisi più profonda, certe posizioni ontologico-epistemologiche a fondamento di diverse scuole cliniche appaiono incompatibili, quale posizione assumere? Questi interrogativi possano essere affrontati su due livelli: a) un criterio veritativo, adottabile se si suppone che vi sia “un modo in cui le cose stanno”, che vi siano delle invarianti strutturali; che sia possibile tendere al vero ontologico (o, almeno, al vero nella descrizione fenomenologica) con qualche asserzione universale intorno all’uomo e alla sua psiche; che non tutto nella realtà possa essere stabilito dall’uomo; se, cioè, si accetta che la realtà -nella fattispecie, la realtà psichica e il suo funzionamento- in qualche misura precede e supera l’uomo, che l’uomo non crea se stesso e il proprio mondo psichico dal nulla b) un criterio pragmatico, utile e imprescindibile nel verificare gli effetti dell’assunzione di certe posizioni ontologico-epistemologico-metodologiche in termini di realtà vissuta e di benessere personale. Se ogni prassi clinica presuppone una teoria, e ogni teoria si fonda su certi assunti ontologico-epistemologici, i quali in una scienza umana come la psicologia informano una certa concezione antropologica (in altre parole, una “visione dell’uomo”), ogni psicologo clinico nella sua prassi è -più o meno consapevolmente- guidato dalla visione dell’uomo che il proprio modello teorico di riferimento suppone. Se questo è vero, allora l’“antropologia” dello psicologo ne influenza il lavoro clinico. Ma tali diverse possibili ontologie dell’umano di cui gli psicologi clinici sono inevitabilmente portatori sono equivalenti in termini veritativi e in termini pragmatici, cioè di esiti clinici? Con quali criterî assumere delle posizioni ontologiche ed epistemologiche che delineino una “buona antropologia”? Nel presente lavoro muoverò da questi interrogativi: proverò ad approfondire la questione della concezione antropologica supposta dalle varie prospettive in psicologia clinica, per poi mostrare la necessità di criterî universali nel trattare l’uomo; infine, sosterrò la tesi della necessità logica di un criterio di verità.
"Che cosa è l'uomo?" Considerazioni epistemologiche e prospettive filosofiche intorno al problema della verità dell'Umano nella Psicologia clinica
BUCCOLIERI, MATTEO
2021/2022
Abstract
Il pluralismo teorico, e di posizioni ontologiche sottese ai vari orientamenti teorici, in Psicologia clinica richiama l’urgenza e la portata della domanda morale e di verità: quale modo di intendere l’uomo, quale visione antropologica -sempre a fondamento di ogni prospettiva teorico-clinica in psicologia- è meglio scegliere? Con quali criterî? Nei casi in cui, a un’analisi più profonda, certe posizioni ontologico-epistemologiche a fondamento di diverse scuole cliniche appaiono incompatibili, quale posizione assumere? Questi interrogativi possano essere affrontati su due livelli: a) un criterio veritativo, adottabile se si suppone che vi sia “un modo in cui le cose stanno”, che vi siano delle invarianti strutturali; che sia possibile tendere al vero ontologico (o, almeno, al vero nella descrizione fenomenologica) con qualche asserzione universale intorno all’uomo e alla sua psiche; che non tutto nella realtà possa essere stabilito dall’uomo; se, cioè, si accetta che la realtà -nella fattispecie, la realtà psichica e il suo funzionamento- in qualche misura precede e supera l’uomo, che l’uomo non crea se stesso e il proprio mondo psichico dal nulla b) un criterio pragmatico, utile e imprescindibile nel verificare gli effetti dell’assunzione di certe posizioni ontologico-epistemologico-metodologiche in termini di realtà vissuta e di benessere personale. Se ogni prassi clinica presuppone una teoria, e ogni teoria si fonda su certi assunti ontologico-epistemologici, i quali in una scienza umana come la psicologia informano una certa concezione antropologica (in altre parole, una “visione dell’uomo”), ogni psicologo clinico nella sua prassi è -più o meno consapevolmente- guidato dalla visione dell’uomo che il proprio modello teorico di riferimento suppone. Se questo è vero, allora l’“antropologia” dello psicologo ne influenza il lavoro clinico. Ma tali diverse possibili ontologie dell’umano di cui gli psicologi clinici sono inevitabilmente portatori sono equivalenti in termini veritativi e in termini pragmatici, cioè di esiti clinici? Con quali criterî assumere delle posizioni ontologiche ed epistemologiche che delineino una “buona antropologia”? Nel presente lavoro muoverò da questi interrogativi: proverò ad approfondire la questione della concezione antropologica supposta dalle varie prospettive in psicologia clinica, per poi mostrare la necessità di criterî universali nel trattare l’uomo; infine, sosterrò la tesi della necessità logica di un criterio di verità.File | Dimensione | Formato | |
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