Il Giorno di Ognissanti, Festum Omnium Sanctorum, il primo novembre, del 1755, Dies Horribilis, un terremoto, tra i più potenti e più devastanti mai registrati nella storia, ridusse in macerie Lisbona. Quel che rimase, le rovine, i sopravvissuti, i feriti, i cadaveri, fu spazzato via da un maremoto oppure ridotto in cenere da un incendio imperversato per giorni e notti. Affinché il lettore possa comprendere, dire, allora, «Lisbona è stata distrutta» è come dire, oggi, «New York è stata distrutta». La capitale del Regno del Portogallo, contava, alla metà del XVIII secolo, dai 150.000 ai 260.000 abitanti, figurando tra le città più grandi d’Europa insieme a Londra, Parigi e Napoli. Il suo porto, inoltre, era il terzo più importante al mondo, dopo quelli di Londra e Amsterdam. Le stime, ufficiali e non, relative al numero delle vittime del disastro riportano dai 10.000 ai 100.000 morti. Quelle, invece, relative ai danni riportano la cifra di 150 milioni di cruzeiro, tra cui 40 milioni è il valore delle merci andate perdute. Fu un evento dalla portata, geografica e comunicativa, enorme. Fu percepito, infatti, in gran parte dell’Europa e dell’Africa del Nord, in un’area ampia due milioni e mezzo di Km2, ed ebbe tremende conseguenze ben oltre Lisbona: Algeciras, Cadice e Jerez, in Spagna, furono parimenti distrutte. Su Lisbona si concentrò l’attenzione del mondo. Il grande terremoto incuriosì, appassionò e commosse i contemporanei. Avvene, forse per la prima volta, la spettacolarizzazione della catastrofe. Il suo pubblico, la nascente opinione pubblica europea, al riparo da ogni disagio e periglio, si nutrì di un profluvio di periodici, gazzette, almanacchi, bollettini e resoconti che riportavano ogni minuzioso dettaglio, anche quelli più raccapriccianti, amplificatando, in qualità e quantità, paura e angoscia. Si instaurò «un rapporto diretto e ambiguo, di segreto inebriamento e di inconfessabile dipendenza, con la categoria stessa della catastrofe». Dall’ira divina, dagli sconquassi materiali e morali, arrecanti distruzione, sofferenza e morte a Lisbona e ai suoi abitanti, scaturirono, pardecà e par delà l’Atlantico, discussioni teologiche, filosofiche e scientifiche. Di fronte al dolore dell'uomo e al silenzio di Dio, di fronte ad una catastrofe che rovinò il giusto e l’ingiusto, il colpevole e l’innocente, Voltaire scrisse, nel 1756, l’operetta intitolata Poema sul disastro di Lisbona, in piena polemica con Alexander Pope e, pertanto, l’intero ottimismo e provvidenzialismo cosmico. Alla diatriba si aggiunsero, successivamente, i philosophes Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant. Il grande terremoto di Lisbona ebbe e ha un significato epocale. Chiude definitivamente con il passato e apre all’Età Moderna. Fu l’ultima volta, infatti, che i piani di Dio furono oggetto di un dibattito pubblico di tali dimensioni. In un epoca di fiducia, nella ragione, nella scienza, l’uomo tornò ad avere sfiducia nel mondo. Tenterò, nella presente tesi, di offrire un quadro, il più completo, chiaro e oggettivo possibile, dell’immane furia abbattutasi su Lisbona e delle discussioni, teologiche, filosofiche e scientifiche da esso scaturite, sebbene l’argomento sia, inevitabilmente, un carcere piranesiano: vi sono centinaia di fonti primarie e secondarie accumulatesi nel tempo che affrontano il tema da tutte le prospettive possibili. L’obiettivo rimane, tuttavia, rifuggire alla confusione. Le fonti da me consultate variegate nel tempo, nello spazio e, pertanto, nella lingua, saranno affiancate da testi scientifici di statistica e di geologia affinché si esaudisca il desiderio di scrivere una tesi che sia il risultato di un dialogo multidisciplinare costante.
La catastrofe nell'Età dei Lumi: il grande terremoto di Lisbona
PROTO, ANTONINO
2024/2025
Abstract
Il Giorno di Ognissanti, Festum Omnium Sanctorum, il primo novembre, del 1755, Dies Horribilis, un terremoto, tra i più potenti e più devastanti mai registrati nella storia, ridusse in macerie Lisbona. Quel che rimase, le rovine, i sopravvissuti, i feriti, i cadaveri, fu spazzato via da un maremoto oppure ridotto in cenere da un incendio imperversato per giorni e notti. Affinché il lettore possa comprendere, dire, allora, «Lisbona è stata distrutta» è come dire, oggi, «New York è stata distrutta». La capitale del Regno del Portogallo, contava, alla metà del XVIII secolo, dai 150.000 ai 260.000 abitanti, figurando tra le città più grandi d’Europa insieme a Londra, Parigi e Napoli. Il suo porto, inoltre, era il terzo più importante al mondo, dopo quelli di Londra e Amsterdam. Le stime, ufficiali e non, relative al numero delle vittime del disastro riportano dai 10.000 ai 100.000 morti. Quelle, invece, relative ai danni riportano la cifra di 150 milioni di cruzeiro, tra cui 40 milioni è il valore delle merci andate perdute. Fu un evento dalla portata, geografica e comunicativa, enorme. Fu percepito, infatti, in gran parte dell’Europa e dell’Africa del Nord, in un’area ampia due milioni e mezzo di Km2, ed ebbe tremende conseguenze ben oltre Lisbona: Algeciras, Cadice e Jerez, in Spagna, furono parimenti distrutte. Su Lisbona si concentrò l’attenzione del mondo. Il grande terremoto incuriosì, appassionò e commosse i contemporanei. Avvene, forse per la prima volta, la spettacolarizzazione della catastrofe. Il suo pubblico, la nascente opinione pubblica europea, al riparo da ogni disagio e periglio, si nutrì di un profluvio di periodici, gazzette, almanacchi, bollettini e resoconti che riportavano ogni minuzioso dettaglio, anche quelli più raccapriccianti, amplificatando, in qualità e quantità, paura e angoscia. Si instaurò «un rapporto diretto e ambiguo, di segreto inebriamento e di inconfessabile dipendenza, con la categoria stessa della catastrofe». Dall’ira divina, dagli sconquassi materiali e morali, arrecanti distruzione, sofferenza e morte a Lisbona e ai suoi abitanti, scaturirono, pardecà e par delà l’Atlantico, discussioni teologiche, filosofiche e scientifiche. Di fronte al dolore dell'uomo e al silenzio di Dio, di fronte ad una catastrofe che rovinò il giusto e l’ingiusto, il colpevole e l’innocente, Voltaire scrisse, nel 1756, l’operetta intitolata Poema sul disastro di Lisbona, in piena polemica con Alexander Pope e, pertanto, l’intero ottimismo e provvidenzialismo cosmico. Alla diatriba si aggiunsero, successivamente, i philosophes Jean-Jacques Rousseau e Immanuel Kant. Il grande terremoto di Lisbona ebbe e ha un significato epocale. Chiude definitivamente con il passato e apre all’Età Moderna. Fu l’ultima volta, infatti, che i piani di Dio furono oggetto di un dibattito pubblico di tali dimensioni. In un epoca di fiducia, nella ragione, nella scienza, l’uomo tornò ad avere sfiducia nel mondo. Tenterò, nella presente tesi, di offrire un quadro, il più completo, chiaro e oggettivo possibile, dell’immane furia abbattutasi su Lisbona e delle discussioni, teologiche, filosofiche e scientifiche da esso scaturite, sebbene l’argomento sia, inevitabilmente, un carcere piranesiano: vi sono centinaia di fonti primarie e secondarie accumulatesi nel tempo che affrontano il tema da tutte le prospettive possibili. L’obiettivo rimane, tuttavia, rifuggire alla confusione. Le fonti da me consultate variegate nel tempo, nello spazio e, pertanto, nella lingua, saranno affiancate da testi scientifici di statistica e di geologia affinché si esaudisca il desiderio di scrivere una tesi che sia il risultato di un dialogo multidisciplinare costante.| File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.12608/95136