La storia dei Lager nazionalsocialisti è circondata tutt’oggi da un alone di mistero e complessità che ne ostacolano la comprensione. Durante la Seconda guerra mondiale, la costruzione di queste strutture disumane venne estesa su gran parte dell’Europa occupata dalla Germania nazista, seminando rovina e miseria. Di questo spiacevole avvenimento se ne occuparono centinaia di studiosi, molti dei quali però tralasciarono un dettaglio molto importante, ovvero comprendere come gruppi eterogenei di detenuti riuscivano a comunicare in una condizione simile. All'interno di queste strutture vennero deportati individui di diverse nazionalità, provenienti da tutta l’Europa, con una notevole prevalenza delle popolazioni dell’est come: russi, cecoslovacchi, jugoslavi, polacchi ed ebrei orientali. Ogni campo era strettamente legato agli altri, spesso infatti detenuti e sorveglianti stessi venivano trasferiti da un Lager all’altro creando così una rete di informazioni e fenomeni linguistici comuni. La lingua che venne a crearsi può essere considerata il frutto dell’interazione e contatto di lingue diverse che si sono trovate una accanto all’altra per un determinato periodo di tempo e una determinata condizione fisica e psicologica. I primi ad interessarsi a questo fenomeno furono gli studiosi polacchi, la lingua polacca, infatti, ebbe un ruolo chiave nella formazione delle convenzioni linguistiche regnanti nei Lager. Quest’ultimi denominarono il mistilinguismo presente all’interno dei campi di concentramento Lagerszpracha, un composto slavo-tedesco che racchiude perfettamente in sé il carattere di questa lingua. L’aspetto linguistico dei Lager inizia quindi ad essere esaminato quando la più antica rivista medica polacca “Przeglad Lekarski” pubblica una sorta di dizionario di Auschwitz chiamato Słownik òswięcimski a cura di Jagoda, Kłodziński, Masłowski e Wesołowska, autori di altri studi successivi. A causa delle poche testimonianze scritte e affidabili sulla Lagerszpracha, la sua categorizzazione risulta tuttora alquanto complessa, ma grazie alla sua natura e alla situazione in cui nacque può essere ricollegata al concetto di pidgin, ovvero sono una sorta di lingua provvisoria e occasionale che trae origine da una situazione di contatto, solitamente forzato, tra gruppi di persone con lingue madri diverse ai quali serve necessariamente uno strumento comune per poter comunicare. Normalmente questo contatto avviene tra lingue non socialmente paritarie. Nel fenomeno da noi considerato, infatti, vi sono più lingue dei dominati, e una sola lingua dei dominatori, il tedesco, la quale subisce inevitabilmente una semplificazione e scarnificazione. Un’altra caratteristica che avvicina la Lagerszpracha alla definizione di pidgin è la sua quasi totale mancanza di parole funzionali come preposizioni, articoli o congiunzioni, nonché una struttura grammaticale e un vocabolario molto ristretti. La tendenza dei pidgin a “creolizzarsi” fino a diventare una lingua materna di un gruppo di parlanti, non si esprimerà mai nella Lagerzpracha, infatti, ebbe vita molto breve poiché strettamente legata agli interlocutori abituali e al contesto comunicativo che fortunatamente cessò di esistere dopo la liberazione dei Lager e non ci fu altra occasione per i parlanti di riviverlo. Come spiega la germanista Donatella Chiapponi, si potrebbe parlare di una singola Lagerszpracha, che varia soltanto in dipendenza della dislocazione regionale del Lager in questione, e dell'origine dei propri prigionieri. L’oggetto della nostra ricerca era per prima cosa una lingua di un gruppo isolato di persone che si trovavano a vivere una situazione di eccezionalità estrema e difficilmente ripetibile; era uno specchio della quotidianità del Lager, dunque volgare e rude.

Lagerszpracha: comunicare e sopravvivere nei lager nazisti

BARISON, MARTINA
2021/2022

Abstract

La storia dei Lager nazionalsocialisti è circondata tutt’oggi da un alone di mistero e complessità che ne ostacolano la comprensione. Durante la Seconda guerra mondiale, la costruzione di queste strutture disumane venne estesa su gran parte dell’Europa occupata dalla Germania nazista, seminando rovina e miseria. Di questo spiacevole avvenimento se ne occuparono centinaia di studiosi, molti dei quali però tralasciarono un dettaglio molto importante, ovvero comprendere come gruppi eterogenei di detenuti riuscivano a comunicare in una condizione simile. All'interno di queste strutture vennero deportati individui di diverse nazionalità, provenienti da tutta l’Europa, con una notevole prevalenza delle popolazioni dell’est come: russi, cecoslovacchi, jugoslavi, polacchi ed ebrei orientali. Ogni campo era strettamente legato agli altri, spesso infatti detenuti e sorveglianti stessi venivano trasferiti da un Lager all’altro creando così una rete di informazioni e fenomeni linguistici comuni. La lingua che venne a crearsi può essere considerata il frutto dell’interazione e contatto di lingue diverse che si sono trovate una accanto all’altra per un determinato periodo di tempo e una determinata condizione fisica e psicologica. I primi ad interessarsi a questo fenomeno furono gli studiosi polacchi, la lingua polacca, infatti, ebbe un ruolo chiave nella formazione delle convenzioni linguistiche regnanti nei Lager. Quest’ultimi denominarono il mistilinguismo presente all’interno dei campi di concentramento Lagerszpracha, un composto slavo-tedesco che racchiude perfettamente in sé il carattere di questa lingua. L’aspetto linguistico dei Lager inizia quindi ad essere esaminato quando la più antica rivista medica polacca “Przeglad Lekarski” pubblica una sorta di dizionario di Auschwitz chiamato Słownik òswięcimski a cura di Jagoda, Kłodziński, Masłowski e Wesołowska, autori di altri studi successivi. A causa delle poche testimonianze scritte e affidabili sulla Lagerszpracha, la sua categorizzazione risulta tuttora alquanto complessa, ma grazie alla sua natura e alla situazione in cui nacque può essere ricollegata al concetto di pidgin, ovvero sono una sorta di lingua provvisoria e occasionale che trae origine da una situazione di contatto, solitamente forzato, tra gruppi di persone con lingue madri diverse ai quali serve necessariamente uno strumento comune per poter comunicare. Normalmente questo contatto avviene tra lingue non socialmente paritarie. Nel fenomeno da noi considerato, infatti, vi sono più lingue dei dominati, e una sola lingua dei dominatori, il tedesco, la quale subisce inevitabilmente una semplificazione e scarnificazione. Un’altra caratteristica che avvicina la Lagerszpracha alla definizione di pidgin è la sua quasi totale mancanza di parole funzionali come preposizioni, articoli o congiunzioni, nonché una struttura grammaticale e un vocabolario molto ristretti. La tendenza dei pidgin a “creolizzarsi” fino a diventare una lingua materna di un gruppo di parlanti, non si esprimerà mai nella Lagerzpracha, infatti, ebbe vita molto breve poiché strettamente legata agli interlocutori abituali e al contesto comunicativo che fortunatamente cessò di esistere dopo la liberazione dei Lager e non ci fu altra occasione per i parlanti di riviverlo. Come spiega la germanista Donatella Chiapponi, si potrebbe parlare di una singola Lagerszpracha, che varia soltanto in dipendenza della dislocazione regionale del Lager in questione, e dell'origine dei propri prigionieri. L’oggetto della nostra ricerca era per prima cosa una lingua di un gruppo isolato di persone che si trovavano a vivere una situazione di eccezionalità estrema e difficilmente ripetibile; era uno specchio della quotidianità del Lager, dunque volgare e rude.
2021
Lagerszpracha: communicating and surviving in Nazi concentration camps
Lagerszpracha
Comunicazione
Sopravvivenza
Lager
Tedesco
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12608/11556