Il presente lavoro di tesi si propone, attraverso un disamina delle molteplici fonti giuridiche e letterarie a noi pervenutaci, di analizzare come venivano disciplinati e sanzionati al tempo di Roma antica una serie di fattispecie criminose a sfondo sessuale di cui la donna risultava essere soggetto passivo, nonché di definire l'uso che la stessa ha fatto della propria sessualità nella remota antichità. A tale scopo dopo un capitolo introduttivo dedicato a sottolineare la condizione giuridica della donna e la debolezza e l'inferiorità che la contraddistinguevano e che rendevano necessaria la sua sottomissione al controllo di un uomo, siamo passati ad analizzare nello specifico le condotte lesive della pudicizia della matrona romana, lo stupro, il rapimento ed il lenocinio. Dal presente lavoro di ricerca risulta che risale proprio all'età più antica di Roma la nascita di stereotipi che sono destinati a rimanere immutabili nel corso del tempo e a perseguitare le donne per il resto della loro esistenza. In virtù del lavoro svolto meglio si può comprendere l'origine di quella cultura del sospetto evocata ancora oggigiorno nei confronti della vittima di violenza sessuale, anche se in ambienti diversi dal tribunale. Nette e ineliminabili risultano però essere le discrepanze sussistenti tra l'esperienza giuridica romana e il diritto penale odierno. Infatti, basti qui accennare al fatto che, nel mondo antico, non è stata riconosciuta nessuna autonomia concettuale alla figura criminosa conosciuta e regolata dai codici moderni come violenza sessuale e che lo stesso significato attribuito dai Romani al termine "stupro" non coincide con l'attuale "stupro" della lingua italiana, dal momento che non si richiedeva necessariamente, ai fini della configurazione del reato ivi oggetto di esame, l'uso della violenza carnale. In conclusione possiamo affermare che la donna romana non godeva di una protezione giuridica effettiva; i giuristi si mostravano molto scettici nel considerare la donna vittima di violenza sessuale e di conseguenza era difficile per la stessa liberarsi dal sospetto di correità. Ciò che risulta e che la stessa violenza sessuale veniva concepita come un'offesa in primo luogo verso quei padri, mariti e fratelli che della donna erano titolari. La donna, invece, vittima di "reale" violenza era quella il cui corpo raccontava, con le ferite, la resistenza opposta alla brutalità dell'aggressore.

La donna come soggetto passivo dei reati a sfondo sessuale nell'antica Roma.

CIOBANU, IONELA CATALINA
2021/2022

Abstract

Il presente lavoro di tesi si propone, attraverso un disamina delle molteplici fonti giuridiche e letterarie a noi pervenutaci, di analizzare come venivano disciplinati e sanzionati al tempo di Roma antica una serie di fattispecie criminose a sfondo sessuale di cui la donna risultava essere soggetto passivo, nonché di definire l'uso che la stessa ha fatto della propria sessualità nella remota antichità. A tale scopo dopo un capitolo introduttivo dedicato a sottolineare la condizione giuridica della donna e la debolezza e l'inferiorità che la contraddistinguevano e che rendevano necessaria la sua sottomissione al controllo di un uomo, siamo passati ad analizzare nello specifico le condotte lesive della pudicizia della matrona romana, lo stupro, il rapimento ed il lenocinio. Dal presente lavoro di ricerca risulta che risale proprio all'età più antica di Roma la nascita di stereotipi che sono destinati a rimanere immutabili nel corso del tempo e a perseguitare le donne per il resto della loro esistenza. In virtù del lavoro svolto meglio si può comprendere l'origine di quella cultura del sospetto evocata ancora oggigiorno nei confronti della vittima di violenza sessuale, anche se in ambienti diversi dal tribunale. Nette e ineliminabili risultano però essere le discrepanze sussistenti tra l'esperienza giuridica romana e il diritto penale odierno. Infatti, basti qui accennare al fatto che, nel mondo antico, non è stata riconosciuta nessuna autonomia concettuale alla figura criminosa conosciuta e regolata dai codici moderni come violenza sessuale e che lo stesso significato attribuito dai Romani al termine "stupro" non coincide con l'attuale "stupro" della lingua italiana, dal momento che non si richiedeva necessariamente, ai fini della configurazione del reato ivi oggetto di esame, l'uso della violenza carnale. In conclusione possiamo affermare che la donna romana non godeva di una protezione giuridica effettiva; i giuristi si mostravano molto scettici nel considerare la donna vittima di violenza sessuale e di conseguenza era difficile per la stessa liberarsi dal sospetto di correità. Ciò che risulta e che la stessa violenza sessuale veniva concepita come un'offesa in primo luogo verso quei padri, mariti e fratelli che della donna erano titolari. La donna, invece, vittima di "reale" violenza era quella il cui corpo raccontava, con le ferite, la resistenza opposta alla brutalità dell'aggressore.
2021
Woman as a passive subject of sexual offenses in ancient Rome
mulier
pudicitia
stuprum
Res publica
crimina
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Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/20.500.12608/11822