La vulvodinia fa parte delle cosiddette “malattie invisibili” e interessa circa 1 persona assegnata femmina alla nascita su 7. L’esigenza di scrivere questa tesi nasce dal fatto che la vulvodinia è una patologia ancora troppo poco conosciuta, studiata e discussa (sia in campo clinico che bioingegneristico), pur essendo molto diffusa e di difficile gestione fisica ed emotiva per chi ci convive. La difficoltà di riconoscere e trattare questa patologia deriva sicuramente dal fatto che le sue cause sono ancora per lo più incerte, e probabilmente multifattoriali, ma anche dalla relativa preparazione del personale medico che dovrebbe diagnosticarla o accompagnare nel percorso di cura, che spesso non è abbastanza formato per farlo. Nell’affrontare la vulvodinia è necessario prendere in considerazione anche le questioni di genere: nell’immaginario comune, le donne vengono percepite come più emotive ed espressive, con capacità di razionalizzazione più limitate. Di conseguenza, vengono sminuite o direttamente non credute quando chiedono aiuto, e spesso la causa del loro dolore è subito declassata a psicologica senza ulteriori approfondimenti. Inoltre, il sistema sanitario occidentale tende ad essere troppo veloce e superficiale nel concludere che “non c’è nulla che non va se non è evidenziata una causa fisica”. Tuttavia, alcune patologie, proprio come la vulvodinia, non hanno manifestazione fisica esplicita pur avendo solide cause biologiche. Non è comunque corretto definire questo tipo di malattie come “malattie delle donne”, come spesso riportano le testate giornalistiche ma anche testi più scientifici: questa visione è limitata e riduttiva perché non tiene conto, ad esempio, dell’esperienza di persone non-binary e transgender che ne soffrono. Per non perdere la connotazione legata al genere, che spiega gli stereotipi sopracitati, si potrebbe eventualmente parlare di patologie tipicamente femminili, in senso strettamente anatomico e non identitario. Tutti i motivi elencati portano ad un ritardo diagnostico inaccettabile: quello per la vulvodinia è di circa 5 anni. La situazione ovviamente peggiora per persone che oltre alla discriminazione del genere ne subiscono altre. Ricorro alla citazione di un paragrafo tratto da un articolo che ho trovato interessante, che ne riassume varie in modo puntuale: “A seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le associazioni di pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria per accedere all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli […] La cura è dunque un percorso a ostacoli particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate, precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.” L’obiettivo di questa tesi è spiegare che cos’è la vulvodinia (cercando di presentarla in modo conciso pur tenendo conto della sua complessità, sia quella della patologia in sé, che quella delle varie esperienze delle persone che la vivono) evidenziando come la si può trattare grazie alla riabilitazione fisica del pavimento pelvico con dispositivi biomedici e mettendo in risalto, laddove possibile, le eventuali criticità e/o possibilità di miglioramento dei dispositivi stessi.
Dispositivi medici per la riabilitazione del pavimento pelvico in presenza di vulvodinia
CASAROTTO, ALBERTA
2023/2024
Abstract
La vulvodinia fa parte delle cosiddette “malattie invisibili” e interessa circa 1 persona assegnata femmina alla nascita su 7. L’esigenza di scrivere questa tesi nasce dal fatto che la vulvodinia è una patologia ancora troppo poco conosciuta, studiata e discussa (sia in campo clinico che bioingegneristico), pur essendo molto diffusa e di difficile gestione fisica ed emotiva per chi ci convive. La difficoltà di riconoscere e trattare questa patologia deriva sicuramente dal fatto che le sue cause sono ancora per lo più incerte, e probabilmente multifattoriali, ma anche dalla relativa preparazione del personale medico che dovrebbe diagnosticarla o accompagnare nel percorso di cura, che spesso non è abbastanza formato per farlo. Nell’affrontare la vulvodinia è necessario prendere in considerazione anche le questioni di genere: nell’immaginario comune, le donne vengono percepite come più emotive ed espressive, con capacità di razionalizzazione più limitate. Di conseguenza, vengono sminuite o direttamente non credute quando chiedono aiuto, e spesso la causa del loro dolore è subito declassata a psicologica senza ulteriori approfondimenti. Inoltre, il sistema sanitario occidentale tende ad essere troppo veloce e superficiale nel concludere che “non c’è nulla che non va se non è evidenziata una causa fisica”. Tuttavia, alcune patologie, proprio come la vulvodinia, non hanno manifestazione fisica esplicita pur avendo solide cause biologiche. Non è comunque corretto definire questo tipo di malattie come “malattie delle donne”, come spesso riportano le testate giornalistiche ma anche testi più scientifici: questa visione è limitata e riduttiva perché non tiene conto, ad esempio, dell’esperienza di persone non-binary e transgender che ne soffrono. Per non perdere la connotazione legata al genere, che spiega gli stereotipi sopracitati, si potrebbe eventualmente parlare di patologie tipicamente femminili, in senso strettamente anatomico e non identitario. Tutti i motivi elencati portano ad un ritardo diagnostico inaccettabile: quello per la vulvodinia è di circa 5 anni. La situazione ovviamente peggiora per persone che oltre alla discriminazione del genere ne subiscono altre. Ricorro alla citazione di un paragrafo tratto da un articolo che ho trovato interessante, che ne riassume varie in modo puntuale: “A seguito della diagnosi, la vulvodinia porta con sé, secondo le associazioni di pazienti, una spesa mensile media di oltre 300 euro, necessaria per accedere all’indispensabile trafila di farmaci, manipolazioni ostetriche o fisioterapiche settimanali, visite specialistiche e controlli […] La cura è dunque un percorso a ostacoli particolarmente estenuante che risulta sostenibile solo da parte di donne bianche, cis, del nord Italia e di ceto quanto meno medio, pur con grandissime difficoltà economiche ed emotive. Per le donne del sud Italia lontane 800 km dal primo centro specializzato, per le persone meno abbienti, razzializzate, precarie, trans o con difficoltà linguistiche la possibilità di accedere alla cura è fortemente limitata, poiché il sessismo della discriminazione medica è attraversato da altre disuguaglianze e violenze istituzionali.” L’obiettivo di questa tesi è spiegare che cos’è la vulvodinia (cercando di presentarla in modo conciso pur tenendo conto della sua complessità, sia quella della patologia in sé, che quella delle varie esperienze delle persone che la vivono) evidenziando come la si può trattare grazie alla riabilitazione fisica del pavimento pelvico con dispositivi biomedici e mettendo in risalto, laddove possibile, le eventuali criticità e/o possibilità di miglioramento dei dispositivi stessi.File | Dimensione | Formato | |
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https://hdl.handle.net/20.500.12608/62785